giovedì 23 febbraio 2012

Ascanio Celestini: affabulatore per rivoluzione

L’arte per l’arte, fine a se stessa, è una forma di propaganda. Ossimorico finché si vuole, ma vero. Nella società italiana l’arte è divenuta un’arma di distrazione di massa e il ruolo dell’artista si è evoluto in direzione del divertimento disimpegnato, verso la produzione di una satira accennata di timida fattura, raffinata rappresentazione del letargico atteggiamento di noi cittadini di fronte alla realtà. E’ venuta progressivamente meno la capacità critica, la volontà di analisi, approfondimento e denuncia da parte dei cosiddetti intellettuali (scrittori, registi, attori etc). Ascanio Celestini, in teatro ora con “Pro Patria. Senza prigioni, senza processi” è tra i pochi superstiti di questa visione alta dei compiti di un artista. In un teatro con pochi (anche se appassionati) spettatori, lampante dimostrazione di quanto testé sostenuto, in una Brescia opulenta, città faro della media borghesia lombarda, che si dimostra anestetizzata di fronte a tutto ciò che non sia insegna mediatica, Celestini riporta al centro del suo e del nostro (di spettatori) mondo rivoluzioni e repressioni dei tre risorgimenti nazionali, in un vortice di personaggi storici, da Mazzini, interlocutore muto del protagonista e terrorista ante litteram, a Mameli passando per Garibaldi, Felice Orsini, il negro Aguyar e i tanti protagonisti della prima vera rivoluzione italiana, poi fallita come le altre, del 1849 con la Repubblica Romana; da sfondo a ciò, invisibile tela che tutto imprigiona, vi è il carcere, quello di oggi, di trent’anni fa e del Risorgimento nelle parole di un ergastolano, Celestini, affabulatore solitario che avvince, incanta e commuove con la sua storia mischiata a quelli dei molti come lui. Disperati, dimenticati, cittadini invisibili di un mondo nascosto, rassegnati e per ciò consapevolmente sereni, incuranti dei propri destini perché “i morti e gli ergastolani hanno una cosa in comune, non temono i processi. I morti perché non possono finire in galera, gli ergastolani perché dalla galera non escono più”.

giovedì 16 febbraio 2012

Primarie inter pares

Il PD che non vince le primarie del PD è grottesco, anche perché non è la prima volta. Ma al posto di cercare i colpevoli e processare i dirigenti nazionali, trattandosi di professionisti della politica italiani (incapaci per definizione), è giusto sottolineare la natura virtuosa e partecipata di questa forma di democrazia a cui siamo poco avvezzi. Come si sa, c’è un sistema elettorale nazionale che impedisce ai cittadini di eleggere i propri rappresentanti e, a prescindere dalle dichiarazioni di facciata, ciò fa comodo a tutti i partiti che mantengono assoluto potere decisionale. Verso la metà del primo decennio di questo secolo la sinistra italiana, impantanata all’opposizione senza possibilità di evadere dall’autocrazia (regolarmente eletta) berlusconiana, ebbe una delle rare intuizioni valide dell’epoca e decise di introdurre il sistema delle primarie per i candidati a livello locale. Scoppiarono subito i primi casini, con Vendola in Puglia, scetticismo e critiche dei commentatori (tra cui il sottoscritto, cfr. rivista Panorami, Marzo 2006) non si fecero attendere ma col tempo, e causa soprattutto il Porcellum, venne fuori la lungimiranza dell’idea. L’idea è buona perché ridà centralità alla politica, perché più la partecipazione è massiccia più i sistemi di controllo democratici vanno a regime, perché il confronto non si fa nelle torri d’avorio delle segreterie ma per strada, tra la gggente. Perché se ci sono gli imbrogli, i cinesi iscritti, i morti con la tessera di Pd o Pdl, questi sono i soliti maneggi dei politicanti di mestiere col terrore di chi usa la matita copiativa come un forcone che li manderà a casa a cercarsi un mestiere vero.

sabato 11 febbraio 2012

Olimpiadi: magna magna Roma

Tra le tante geniali trovate che periodicamente la classe dirigente nazionale (c.d. casta) propone, iniziative la cui utilità è sovente quella di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica circa problemi reali e malefatte della succitata casta, degli ultimi tempi la più preoccupante per l’effettiva, ancorché remota, possibilità di realizzazione è la candidatura della città di Roma alle Olimpiadi del 2020. Sostenuta con vigore dal sindaco capitolino Gianni Alemanno (l’uomo che confonde i mm con i cm) e dal presidente del Coni Gianni Petrucci (al quarto mandato consecutivo e già presidente della Federazione Pallacanestro, commissario straordinario della Federazione Calcio e dell’Associazione Arbitri, una new entry), oltre che da un pool di industriali avvezzi alle abituali pratiche del capitalismo all’italiana, cioè profitti privati e pubbliche spese e dagli immancabili esponenti di spicco del duopolio Pdl-Pd, questa candidatura, all’apparenza imbattibile per il fascino della città eterna, si fa forte anche dell’appoggio di ben sessanta (60!) atleti italiani di alto livello tra i quali campioni d’intelletto come Valentino Rossi, Francesco Totti, Federica Pellegrini e altri geni di specchiata sensatezza. Con pochi miliardi di euro, pare solo otto-nove (a preventivo) Roma Capitale e tutto l’Impero potranno godere di entrate incalcolabilmente cospicue, posti di lavoro, prestigio mondiale, turisti a frotte. Insomma, un affarone per noi tutti. Noi tutti che, ora come ora, siamo alle prese con aumento dell’età pensionabile, tagli alla spesa sociale, tassazioni draconiane e abolizione dei diritti minimi per i lavoratori perché ci dicono che lo Stato ha terminato i soldi. Noi tutti che abbiamo visto le Olimpiadi a Torino finire con i buchi di bilancio, i Mondiali di Nuoto (sempre a Roma) gestiti da cricche che si sono spartite appalti miliardari e su cui la magistratura sta ancora indagando, l’Expo di Milano con le infiltrazioni mafiose, i Mondiali di Calcio del 1990 travolti da Tangentopoli, per citare solo gli eventi più eclatanti. Noi tutti che per una volta, una cazzo di volta sola, vorremmo sentire il nostro presidente del consiglio Mario Monti pronunciare l’unica risposta possibile a questo ennesimo tentativo di frode ai danni del popolo italiano: NO!

sabato 4 febbraio 2012

In bilico tra tutti i miei vorrei

Il problema non è il posto fisso in quanto tale. Sai che palle tutta la vita a fare le stesse cose, con le stesse persone, la stessa strada, la stessa mensa (per i fortunati che ce l’hanno), il cervello che va col pilota automatico e un po’ alla volta si atrofizza. E allora cominci ad agognare le ferie, a controllare tutti i ponti sul calendario dell’anno che viene, non prima di aver cominciato a detestare i colleghi, quelli petulanti, poi quelli brutti e poi tutti indistintamente, a controllare freneticamente l’orologio, a deprimerti il lunedì e il martedì. Io il posto fisso ce l’avevo quando ero giovane (lo sono stato fino a quando le cassiere del cinema si sono messe a darmi del lei) e siccome dopo un po’ mi annoiavo l’ho mollato per iniziare una nuova avventura (fa figo spiegata così). Comunque, l’avventura di per sé è andata male, così come quella dopo e quella dopo ancora. Ma il punto non sono le mie traversie professionali, ché detto in questo modo sembro più incapace di Maroni all’Interno, il punto è che il nonno Mario non ha mica tutti i torti a dire quello che dice sul posto fisso. La fregatura non è il precariato di per sé, non è sul fatto che il contratto a progetto dà garanzie per ventiquattro mesi, poniamo, e poi chi s’è visto s’è visto. È che in quei ventiquattro mesi il progettista a contratto non ha diritto alle ferie retribuite, non ha diritto a una previdenza equa (giusto quattro spiccioli), non ha la tredicesima e nemmeno matura il tfr. Se si ammalasse seriamente o avesse un incidente non potrebbe nemmeno aspirare a un sostegno pensionistico per l’insufficienza dei contributi maturati. Il precario è un equilibrista del circo senza la rete di protezione. E se manca la rete sotto, cosa volete che importi la lunghezza del filo?

giovedì 2 febbraio 2012

Acab non è un film

Compiacere i potenti è una tentazione più facile di quanto si possa pensare. Lo si fa da bambini con la maestra per un voto in più rispetto al vicino di banco, con la zia dal fiato pestilenziale per la mancia, lo si fa da adulti per procacciarsi i favori di un capufficio odioso o per uno sconto del dentista. L’arte di esercitare blandizie è quindi innata nell’animo degli uomini, specie esperta nell’adattare le proprie esigenze alle circostanze contingenti. In breve, è istinto di sopravvivenza. Per alcuni soggetti però i limiti che l’umana decenza pone a tale atteggiamento sono piuttosto elastici. Non si accontentano di svolgere il ruolo di comparse nel gioco delle parti dell’umana commedia ma scelgono, con cosciente e coerente ostinazione, di indossare le comode vesti dei servi pasciuti dalla generosa mano del padrone, alla stregua di cani fedeli disposti a tutto per una carezza. Celati dietro al paravento dei falsi valori del capitalismo e del benessere individuale, anteposti innanzi alle rivendicazioni dei propri simili oppressi dall’iniquità di leggi e istituzioni. Sono i guardiani del sistema, professionisti della violenza e mercanti di menzogne, ipocriti consapevoli e convinti delle distorte virtù degli apparati di controllo e repressione; i più furbi di essi non indossano divise, lusinghevoli concessioni per gli sprovveduti, ossi per bestie addomesticate, ma vestono panni mutevoli, maschere per camuffare l’infamia di atti liberticidi. Sono cannibali, avvezzi a divorare i propri simili pur di proteggere  lenoni che rappresentano l’1% dell’umanità e abusano del restante 99%. Hanno un prezzo, non necessariamente economico o materiale, perché ogni uomo ce l'ha, anche se quello di costoro è misero come le loro anime.