lunedì 23 gennaio 2012

Mare, profumo di male (ovvero le crociere andrebbero abolite)

C’è una ragione se, nonostante le forti pressioni degli appassionati lettori di questo blog, non ho ancora condiviso con l’umanità la mia attesa opinione circa il fattaccio avvenuto al Giglio. È che a me le crociere mi fanno proprio schifo. Nel senso che l’idea di crociera solletica parecchio il mio elitario senso di disprezzo per lo svago un tanto al chilo (al netto di prezzi più o meno abbordabili). Perché la crociera sta al concetto di viaggio come Bruno Vespa sta al concetto di televisione d’approfondimento. Le mie esperienze crocieristiche si limitano agli episodi di Love Boat dei pomeriggi post-prandiali anni ottanta e alla finta attenzione rivolta ai noiosi racconti di chi c’è andato (in crociera, non sulla Love Boat). Pantagruelici buffet, feste sfrenate, sport salutari, romantici chiari di luna, escursioni esotiche sono alcune delle ragioni proposte dai sostenitori della crociera quale vacanza ideale. Ideale per gli amanti dei divertimentifici di massa, dei trenini con sconosciuti panzoni sudati, delle visite di un giorno ad Atene, dei ghingheri per la foto ricordo col comandante (?!?). Una vita artefatta, nell’illusione di un protagonismo negato nella quotidianità e alimentato dagli egualmente falsi miti creati da media asserviti all’ideologia consumistica. La corsa sempre più affannata al tutto e ora, sette città in sette giorni, per riferire agli sfortunati rimasti a casa, chiocce di invidia, di aver visto il mondo. È la liposuzione delle coscienze intorpidite da una vita fatta di istantanee a due dimensioni, l’apparenza del sapere tutto, perché è buio l’abisso dell’infinita non conoscenza. La morte del viaggio, del noi, del cammino, del fato dominatore nelle inesauribili rotte dell’umana fallacia. Perché basta poi uno scoglio a rovinare tutto.

giovedì 19 gennaio 2012

Conservatori troppo moderni

L’altro giorno guardavo alla tele La Russa e mi si è riproposto, oltre al minestrone di verdure, anche l’eterno quesito circa la presentabilità di questa destra. È un discorso trito e ritrito, spocchioso, elitario, fastidioso per il lettore quanto per lo scrivente. Perché è una storia che puzza di superiorità etica, boria morale, diversità antropologica. Tutti argomenti che mi facevano incazzare quando erano utilizzati a mio discapito, millenni orsono quando non ero così corretto e noioso come ora. E poi sono banali, e tirare in ballo La Russa equivale a citare Santanché, Buontempo, Gasparri, Giovanardi, Capezzone, Cicchitto, Frattini, Brambilla, Dell’Utri, Carfagna, Minetti (fermatemi pure quando volete). Anche se non è che dall’altra parte se la passino tanto meglio, sono solo un poco più ingenui e non hanno imbarcato un numero equivalente di disadattati campioni nel maneggio della cosa pubblica. Comunque, visto che si parla della destra, dei danni causati dai progressisti se ne discute prossimamente, anche perché otto degli ultimi dieci anni li abbiamo passati con zio Silvio al comando e, oltre a ciò, qui in Lombardia siamo in pieno ventennio formigoniano (1995-?). In politica successi e sconfitte sono sovente opinabili, sia in tempo di elezioni che durante periodi di pax armata come l’attuale, così come possono esserlo le relative valutazioni che scatenerebbero pure una ridda di discussioni sterili, a causa dell’elevato numero di lettori di questo blog. Quindi, al di là delle opinioni che ciascuno purtroppo è libero di avere ed esprimere esercitando il proprio diritto di voto (bleah), ciò che preme valutare è la necessità per la destra italiana di approdare a un fronte conservatore che possa perlomeno aspirare a divenire moderno, democratico, accettabile, europeo, etc, come farebbe tanto piacere a quei pochi benpensanti che quando ascoltano Gasparri, per esempio, poi non si incazzano al pensiero della legge che porta il suo nome (pensiero e Gasparri nella stessa frase è evidentemente ossimorico). A me i reazionari fanno schifo, sgombro subito il campo dalle ipotesi di una conversione scilipotesca (in cambio dei voti dei miei lettori), nel senso che nel mio mondo ideale pre, post e durante Rivoluzione chiaramente andrebbero liquidati democraticamente a spingardate, però in un sistema come questo una destra che si faccia gli affari dei ricchi magari dopo, e non prima come ora, aver assestato (legge e ordine, come piace ai conservatori quelli veri, tipo i notai e i calciatori) un po’ le cose garantirebbe perlomeno un minimo di dignità anche a chi di una tale destra sarebbe fiero oppositore. Conservatori ideologicamente convinti nelle virtù del libero mercato (emoticon che urla) e decisi a imporre un rigore formale che non sia solo quello degli invitati alle orge con le minorenni. Reazionari eleganti e poliglotti, colti e discreti, impeccabili.
Perché, digiamolo, farselo imbustare da Brad Pitt è senz’altro più dignitoso che da Bombolo (anche se fa male uguale).

venerdì 13 gennaio 2012

Taxìììì! (a fischiare non sono buono)

Io il taxi non lo prendo spesso. Anzi, praticamente mai. Ed è proprio questo il punto: in Italia il taxi non lo prende nessuno. Se devo andare al lavoro e ho la macchina a fare il tagliando chiedo un passaggio a mia moglie, mia mamma, mio zio, il mio vicino, il mio collega, non ci penso nemmeno a chiamare un taxi. Chè quello ci mette un vita ad arrivare, mi costa mezza giornata di lavoro e faccio pure tardi. Se voglio andare al cine, dal dottore o a fare un giro al centro commerciale e mi fa schifo il bus perché ci salgono solo moldavi che sanno di cipolla, cinesi all’aglio e senegalesi millegusti, e perché sono un razzista di merda, o ho un sacco di soldi, ma proprio tanti, e allora chiamo il taxi oppure telefono a un mio amico razzista come me e gli offro un caffè in cambio del passaggio. Tutto questo per dire che il taxi da noi è un mezzo per pochi e non un servizio pubblico. Non so se la colpa è dei tassisti, dei politici o di Berlusconi (che c'entra sempre), so però che da cittadino se questa storia delle liberalizzazioni serve ad abbassare le tariffe, allora va bene. Altrimenti ricominciamo con la solfa del “ben altri sono i problemi del paese”.

martedì 10 gennaio 2012

Repubblicani USA: tafazzismo conservatore o leghisti a stelle e strisce?

A scorrere l’elenco dei candidati repubblicani alle primarie c’è da mettersi le mani nei capelli. Al di là delle banali dichiarazioni di appartenenza a questa o a quella religione, già parzialmente valutate in precedenza (vd. post del 31.12.11) e sulle quali sarebbe divertente soffermarsi in un prossimo futuro, l’attenzione degli osservatori neutrali cade inevitabilmente sulle confuse formule adottate per la politica estera e, nella fattispecie, sugli accorgimenti necessari a fronteggiare la crisi economica europea e i rapporti politico-economici con le principali nazioni europee.
Decisi a smarcarsi da quello sciagurato del loro predecessore con la stessa maglia (il piccolo Bush), che infiniti lutti addusse alla sua gente, propugnano tutti con leggera rapidità la non ingerenza nelle questioni estere, con somma ilarità di Iran, Nord Corea, Siria e compagnia torturante, e questo sarebbe il meno, dato che è un po’ un casino invadere una nazione solo perché ti sta sul cazzo chi comanda e magari c’è pure il petrolio, demagogicamente parlando, ma anche, in merito alla crisi del debito, si affrettano a puntualizzare che l’Europa si deve arrangiare e che, insomma, ognuno ha le sue belle gatte da pelare a casa propria. Quello che emerge, da questo manifesto isolazionismo, non è una scelta politica chiara e definita, ancorché discutibile, ma una sommaria superficialità che certifica l’impreparazione a certi scenari dei personaggi in questione. I quali, nel tentativo di differenziarsi dalla loro controparte democratica, si limitano a gettare ai potenziali elettori bocconcini ad alto tasso di populismo di facile digeribilità. In sostanza, una sterilità accostabile all’ottusità leghista di casa nostra. Il pressapochismo e l’approssimazione, uniti all’anti-obamismo di facciata, con cui il drappello repubblicano per le primarie ha scelto di agire non sarebbero così preoccupanti se non fosse per le possibilità di vittoria, al momento ancora labili ma suscettibili di crescita (da qui a novembre tutto può accadere), ma lasciano, per ora, il fronte democratico relativamente tranquillo. In questo triennio Obama ha suscitato qualche perplessità e non può certo essere definito il presidente ideale (che non esiste, perché un presidente è sempre espressione del potere economico, in un modo o nell’altro) ma, ora come ora, le probabilità che venga rieletto, scongiurando il pericolo di un nuovo pagliaccio repubblicano alla Casa Bianca, sono elevate. L’interrogativo che rimane, grande e grosso, è sulle ragioni che hanno portato i vecchi repubblicani ad appoggiare candidati così grossolanamente destinati alla disfatta. Puro masochismo, sulla scia del tafazzismo progressista che ben conosciamo, o semplice incompetenza?

giovedì 5 gennaio 2012

La morte della coscienza di classe

La più grande vittoria del capitalismo è stata quella di farci credere che non fossimo più proletariato. Una grande, unica e indistinguibile massa informe definita classe media, per la quale sarebbero state non più necessarie le epiche lotte sindacali sorte a metà del diciannovesimo secolo, ancor prima della diffusione delle teorie marxiane, ed esauritesi solo nei primi anni ottanta del secolo successivo; rivendicazioni che nascevano proprio dalla coscienza della propria subalterna condizione, condivisa con altre persone in tutto il mondo, e si propagavano con l’inesauribile forza d’urto dell’assoluta fiducia nella lotta come strumento per l’affermazione di diritti inalienabili. E la consapevolezza di ambire a tali diritti ha rappresentato il propellente per il raggiungimento dei medesimi, anche in virtù della piena percezione del proprio ruolo sociale, percezione invece del tutto assente nell’enorme massa di sfruttati affermatasi negli ultimi due decenni del secolo ventesimo e in questa prima parte di ventunesimo. La già citata massa informe rappresentata da lavoratori di vario genere e natura, sdegnati all’idea di confondersi gli uni con gli altri e pronti a respingere il concetto di sfruttamento a loro danno. Venuta meno la consapevolezza della propria asservita condizione è di conseguenza crollata la coscienza di classe, motore delle faticose conquistate sociali raggiunte da donne e uomini sacrificatisi nel corso della storia per il bene comune. In pratica, il trionfo del capitalismo. Impiegati garantiti da contratti a tempo indeterminato non hanno saputo solidarizzare con colleghi più giovani (e talvolta più preparati) obbligati a sottoscrivere accordi capestro, operai immigrati hanno accettato di compiere attività pericolose e non protette a differenza dei loro colleghi immemori delle ancora più ostili condizioni di lavoro un tempo in vigore e, al momento opportuno, nessuno è stato in grado di unire queste forze disperse affinché si levasse una sola, potente voce a sostegno dei più deboli. Ci siamo trovati così ad affrontare una quotidiana guerra tra poveri, quando la guerra l’avremmo dovuta fare ai padroni. Sono bastati un appartamento in periferia, conquistato con comode rate trentennali, un’utilitaria di proprietà, le ferie d’agosto al mare, magari un telefonino ultimo modello o le scarpe griffate (tutto rigorosamente ai saldi) per farci illudere di essere meglio di quelli che scendevano in piazza per urlare la propria voglia di giustizia ed eguaglianza. Il capitalismo ha vinto, e noi abbiamo realizzato il punto decisivo.

martedì 3 gennaio 2012

Orari liberi, lavoratori schiavi


Con la liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali entriamo finalmente nel terzo millennio. Non sfiguriamo nel confronto col resto dei paesi occidentali più evoluti e ci teniamo al passo coi paesi emergenti. Ne beneficerà la concorrenza e di conseguenza i prezzi saranno più vantaggiosi per tutti. Nuovi impulsi ai consumi per far ripartire l’Italia. Cazzate. Orio al Serio (prima località a mettere in pratica l’iniziativa) non è New York, e non lo sono nemmeno Milano, Roma e il resto d’Italia. Ma al di là di questa banale considerazione, l’apertura h24 e 7 giorni su 7 di negozi, bar e centri commerciali non è un passo avanti per il paese ma l’ennesimo passo indietro per i diritti dei lavoratori. Le conseguenze, facili da prevedere, vedranno i piccoli commercianti a vocazione familiare costretti, per restare competitivi, a incentivare il ricorso all’aiuto dei parenti, vedremo nonne, zii e zie, cugini alla lontana alternarsi alle casse, senza contratti e retribuiti in nero (pratica poco diffusa in Italia, si sa), mentre i grandi centri commerciali, gestiti da multinazionali poco o nulla esposte alla crisi globale, potranno prosperare impiegando le categorie meno garantite come giovani, donne, immigrati grazie alla giungla dei contratti di lavoro e all’impossibilità per molti di rifiutare un impiego. Con la liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali, altra banale valutazione, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e poveri dovranno pure ringraziarli per averli sfruttati.